Il Risorgimento del palato

Cento anni fa moriva Pellegrino Artusi, gastronomo dilettante, che con il suo libro La scienza in Cucina e l'Arte di Mangiar Bene aveva contribuito in modo non marginale alla titanica impresa di "fare gli italiani". Il libro che gli ha dato fama era uscito vent'anni prima, nel 1891 a sue spese, perché nessun editore aveva dato fiducia a questo simpatico ex commerciante romagnolo, ritiratosi dal lavoro e dedicatosi prima agli studi letterari ....
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Gli Altri - Venerdì 15 aprile anno III

Georgia

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Il territorio oggi noto come Georgia è stato nei secoli teatro d'incontri e contrasti tra civiltà, culture e religioni, sullo sfondo di una natura ricca e generosa che ha profondamente influenzato la storia di questi luoghi. Qui, più che in altre regioni del mondo, la diversità culturale e naturale raggiunge una complessità straordinaria che affascina chiunque si trovi a viaggiare in questo paese.
Nell'anno in cui Terra Madre ha dato voce agli idiomi indigeni e alle lingue a rischio d'estinzione, la Georgia diventa un esempio emblematico di come lo stretto rapporto tra linguaggio e natura, ecologia e cultura generi un patrimonio di tecniche, tradizioni e sapienze che interpretando l'ecosistema si esprimono nella produzione del cibo, nella codificazione di un repertorio di ricette e nella ritualità del pasto.
Sarà il linguaggio a scandire le tappe di questo viaggio gastronomico in un paese che ospita meno di cinque milioni di abitanti e si estende su una superficie paragonabile al nord Italia in cui oltre al Georgiano e i suoi diciotto dialetti, oggi si parlano quattro lingue storiche, Laz, Mingreliano, Svan, Abcaso, Giudaico-Georgiano,1 e gli idiomi di diverse minoranze presenti sul territorio come il russo, l'azero e l'armeno, il ceceno, ecc.
A partire dal nome ormai in uso presso la comunità internazionale, s'intuisce che la terra abitata dai Kartli sin dall'antichità era nota per la sua vocazione agropastorale. In effetti, il nome Georgia, dal termine georgos, "colui che lavora la terra", è stato attribuito dai Greci a una regione che gli indigeni chiamavano Sakartvelo, "terra dei Kartli".2 Ancora oggi il climax finale del brindisi georgiano è scandito dalla frase Sakartvelos gaumardzhos, "vittoria per la terra dei Kartli": un auspicio evocativo nella storia di un popolo costretto a difendersi dalle invasioni di Greci, Persiani, Romani, Mongoli, Turchi, Sovietici e che oggi si trova ad affrontare tensioni indipendentiste e forti contrasti con la confinante Federazione Russa.
L'attuale Georgia si estende dal Mar Nero all'Azerbaigian con a nord la catena montuosa del Grande Caucaso e a sud gli altopiani rocciosi turchi e armeni. Dalle vette oltre i cinquemila metri al clima sub-tropicale della costa, quindici zone climatiche caratterizzano questa terra. Le pianure e le colline che attraversano la parte centrale del paese sono il luogo dove da sempre si pratica l'agricoltura. In tempo di pace, con i frutti della loro fertile terra, i georgiani festeggiano i lieti eventi della vita brindando con la bevanda che da sempre lega questo popolo alla sua terra: il vino. Anche in questo caso la prospettiva linguistica può aiutarci a capire la profondità di questa relazione: è un'ipotesi autorevole quella che fa derivare dal georgiano ghvino i sostantivi delle lingue europee che si riferiscono a questa bevanda. Se la teoria fosse dimostrata avvalorerebbe la tesi che attribuisce ai Georgiani le prime pratiche di fermentazione dei frutti della vite e, di conseguenza, l'invenzione di un termine per denotare il liquido alcolico prediletto.
La viticultura e la produzione di vino accompagnano da sempre la storia della repubblica caucasica. Le prime testimonianze archeologiche relative alla produzione vinicola risalgono al quarto millennio. Tuttavia, a partire dalla tarda antichità, insieme alla diffusione della fede cristiana, adottata come religione di stato nel quarto secolo, il vino come bevanda secolare e come elemento liturgico assume un crescente valore simbolico per marcare la differenza tra il popolo georgiano e le comunità di fede mussulmana confinanti e ostili, prive di qualsiasi tradizione legata alle bevande fermentate. La profonda relazione che lega il vino ai georgiani non poteva svilupparsi se non in un ecosistema favorevole allo sviluppo della vite selvatica. Molti scienziati ubicano la nascita della Vitis vinifera silvestris nel Caucaso meridionale, sulle colline che vanno dal Mar Morto al Mar Nero dove questa particolare liana ha trovato un habitat ideale.3 Ancora oggi le viti selvatiche sono visibili ovunque nelle regioni centrali della Georgia e con i loro grappoli si produce il vino semplice per l'uso quotidiano, quello che in Italia viene detto fragolino. Ma la Georgia è famosa per il numero stupefacente di vitigni autoctoni di Vitis vinifera vinifera, la vite comunemente usata per produrre vino, che ammontano a circa cinquecentosessanta varietà. Un numero straordinario se pensiamo che in Italia abbiamo circa trecento vitigni nativi in un territorio con un'estensione quattro volte più grande della repubblica caucasica. In effetti, l'area del Caucaso del sud è considerata la culla della domesticazione della vite. L'origine di questo incredibile numero di varietà dipende da fattori storici e naturali complessi, ma anche in questo caso il rapporto tra natura e cultura mediato dall'uso del linguaggio fornisce una prospettiva interessante per analizzare questo fenomeno. È ormai assodato che la diversità linguistica è un presupposto fondamentale nel processo di domesticazione delle varietà agricole. Il mero atto di dare un nome a una nuova varietà porta al suo isolamento da parte delle comunità contadina dando inizio ad un processo che porta nel tempo a ulteriori selezioni e nuovi ibridi. Se questo processo si verifica in zone dove la diversità linguistica è molto accentuata, il risultato diventa esponenziale.4 Lo stesso ragionamento che mette in luce il rapporto tra linguaggio e domesticazione può essere applicato non solo all'impressionante patrimonio ampelografico georgiano ma anche alla considerevole varietà di cereali, alberi da frutto e specie orticole indigene presenti in questo territorio.
Se il numero di vitigni è un elemento che affascina il visitatore occidentale, il processo di vinificazione e affinamento dei georgiani sono del tutto peculiari e si basano sull'uso del kvevri, l'anfora interrata di terracotta che consente di fermentare il mosto alla temperatura costante di circa quindici gradi. La fermentazione può durare tre o quattro mesi e si effettua con le bucce e i raspi, con le sole bucce oppure lasciando soltanto il mosto a fermentare, le tecniche sono antichissime e variano per regione e vitigno. Una volta prodotto il vino, l'affinamento si effettua in anfore di dimensioni ridotte secondo ricette ataviche che ogni famiglia custodisce gelosamente.
In un paese dove la parola "amico" significa letteralmente "colui che mangia dalla stessa ciotola", parlare di vino lontano da una tavola imbandita sottrae senso a questa bevanda. L'impressionante disponibilità d'ingredienti, le numerose contaminazioni delle culture limitrofe e le sofisticate tecniche di cottura rendono il patrimonio gastronomico georgiano unico. A questa ricchezza materiale va aggiunta la sofisticata ritualità del banchetto, la supra, e l'archetipica figura del tamadà, l'officiante, colui che scandisce i tempi del pasto e omaggia i commensali alzando i calici. Sulla tavola georgiana il vino è fonte di gioia e convivialità, diventando, attraverso il rito del brindisi, il simbolo della proverbiale ospitalità del popolo georgiano e della sua devozione nei riguardi dell'ospite. Una tradizione che si perde nei secoli ed è diventata un topos delle canzoni e delle epopee letterarie di questo paese come leggiamo nel passo di Shota Rustaveli, il padre della letteratura georgiana, che nel dodicesimo secolo chiosava: "Spendere per banchettare e per il vino è meglio che raccogliere le proprie ricchezze. Perché quello che offriamo ci rende ricchi, quello che salviamo è perduto."

1 Soliko Tsaishvili, produttore del Presìdio dei Vini in Anfora, alle prese con il suo alambicco. Nei paesi dove c'è la vite è presente anche il mosto e tutte le ricette che ne contemplano l'uso, soprattutto i dolci. Quando il mosto è "esausto" si passa nell'alambicco e inizia il rito della Chacha, la grappa della Georgia. Da esperti bevitori, i georgiani non distillano soltanto le vinacce ma anche ogni varietà di frutto, sempre abbondante nei giardini disseminati in tutto il paese. )
2 La doppia anima del popolo georgiano è ben raffigurata nell'enorme statua che dalle colline della capitale Tbilisi domina il paesaggio brandendo in una mano la spada come monito per gli invasori e offrendo con l'altra una coppa di vino allo straniero in segno d'amicizia.
3 Ramazi Nikoladze, uno dei produttori del Presìdio dei Vini in Anfora assaggia il vino appena preso da una delle anfore del marani, la sua cantina all'aperto

Le ultime quattro foto sono di Luca Gargano

The vine growers Soliko Tsaishvili and Ramaz Nikoladze

From time immemorial, vines and wine have been spread across the entire territory of Georgia, influencing everyday life and reflected in religion, art and folklore. For a Georgian, a plain was where vines grew, while the mountains started where vines could no longer be cultivated. Althought Georgia is a small country, its climate and soil are amazingly diverse and rich, ...
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L'articolo è tratto dal libro Gardens of Biodiversity
curato da Caterina Batello con foto di Marzio Mazot, edito dalla FAO

Gli Altri: Dalla parte del cappone

Volevamo rovinarvi il cenone di Natale. E abbiamo discusso a lungo, qui in redazione, su quale potesse essere l’argomento più irritante. Quale il titolo più efficace nella sterminata produzione dei sensi di colpa? La fame nel mondo? La fine del maschio? La crisi della democrazia? Temi all’ordine del giorno, ma poco natalizi. Allora ci siamo concentrati su di voi, lettori cari, tentando di immaginarvi la sera della vigilia, intorno alla tavola, con parenti e parannanza, ...
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Gli Altri - dicembre 2010

Gli Altri: speciale Slow Food

Negli anni Novanta alcuni di noi si nutrivano quasi esclusivamente di budini al latte di soia. Ascoltavano gli Youth of Today, antesignani dei vegan intransigenti della scena punk versione post americana e, stanchi della retorica dei “manicaretti della mamma”, volavano in cerca di altre cucine. Quello stile di vita straight edge, un po’ ribelle e un po’ “pulito”, forniva la chiave per esprimere un giudizio sul mondo. Poi cominciavi a capire che non devi andare oltreoceano per comprendere...
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Gli Altri - Venerdì 22 ottobre 2010 anno II numero 45

La Torah a Milano parla di pesce livornese

Cosa fanno un ebreo, un’americana e un italiano in una cucina romana? Sembrerebbe l’inizio di una storia dal finale forse ironico forse inquietante. Invece, dietro ai fornelli, i tre semplicemente cucinano e dedicano il loro tempo all’approfondimento delle ricette della tradizione romana.Interpeti nella stessa città della medesima cultura gastronomica, le loro diverse storie di vita estendono quotidianamente i limiti dettati dall’appartenenza a un territorio.
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Gli Altri - Venerdì 8 ottobre 2010 anno II numero 42

Uscire dalle tradizioni, entrare nel territorio

Il prossimo Salone del Gusto di Torino si apre a ottobre. Arrivato all’ottava edizione, l’evento biennale ideato da Slow Food è costruito intorno a uno dei cardini del pensiero di Carlo Petrini: il cibo e i saperi messi in campo per produrlo dovrebbero essere l’espressione del territorio in cui vengono creati.
Nel primo numero di settembre de Gli Altri avevamo proposto un’analisi del rapporto ...
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Gli Altri - Venerdì 24 settembre 2010 anno II numero 41

La terra sotto la tavola

Cibo = Territori. Questo è il titolo del prossimo Salone del Gusto di Torino (21 – 25 ottobre 2010). Arrivato alla ottava edizione, l’evento biennale ideato da Slow Food è costruito intorno a uno dei cardini del pensiero di Carlo Petrini: il cibo e i saperi messi in campo per produrlo dovrebbero essere l’espressione del territorio in cui vengono creati. Il programma del Salone recita: “Se i territori fossero semplicemente terreni, supporti fisici alla produzione alimentare...
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Gli Altri - Venerdì 17 settembre 2010 anno II numero 40

Back to the future

As the Russian romantic Mikhail Lermontov once promised: “if you go to the Caucasus, you’ll return a poet.” This is what happened to Josko Gravner, the celebrated Italian vintner from Italy’s northeast Friuli region when he made the revolutionary decision thirteen years ago to age his wines in clay amphorae instead of oak, cement or stainless steel.
His poetic choice brought him to rediscover a traditional that had been perfected by ... per continuare a leggere l'articolo scarica il file in PDF

Wine Enthusiast Magazine - July 2010

Vis - Croazia
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Anche per chi abitualmente visita cantine, l’idea di entrare dentro una montagna invece di scendere qualche metro sotto terra è una novità eccitante. A Vis non è poi così incredibile. La nostra prima tappa alla scoperta dei vini di questa piccola isola dell’Adriatico è nella cantina di Lipanovic, ricavata in un bunker scavato nel cuore di un monte al centro dell’Isola. Secondo il buon senso marziale trovare un bunker sotterraneo non dovrebbe essere mai troppo facile. Infatti, girando per Vis con altri pensieri per la testa è difficile notare l’entrata di questa azienda vinicola. [vedi foto 1] Soltanto fermandosi ad osservare la montagna si notano due grossi blocchi di cemento a mezza costa, un tempo utilizzati come prese d’aria, e poi, scendendo con lo sguardo, un cunicolo che si perde nel buio della roccia. Ci avventuriamo e lasciamo la luce ed il calore del sole agostano alle nostre spalle. Quando il bunker fu costruito neanche i più lungimiranti strateghi potevano pensare che in tempo di pace questo luogo sarebbe diventato un ambiente perfetto per la produzione di Plavac e Bugava, i due principali vitigni/vini dell’isola. La temperatura naturalmente controllata e l’umidità costante fanno delle gallerie di cemento armato scavate nella roccia un luogo ideale per fermentare, affinare e conservare il vino. Antonio Lipanovic ci accoglie e subito rivela il carattere comune a molti uomini dell’isola: gentile e disponibile ma anche pratico e sbrigativo. Il giudizio sui suoi vini è asciutto: “assaggiateli, a me piacciono.” In effetti sono ottimi (vedi degustazione), tra le migliori espressioni dell’isola di questi due vitigni: il Plavac (o Plavac mali), a bacca rossa, e il bianco Bugava. Il primo sembra essere l’antenato di quello che in Italia si chiama Primitivo e in California Zinfandel ed è caratterizzato da robusti tannini e spiccata carica alcolica. Gli aromi più comuni che il Palvac sviluppa in fase di fermentazione sono pepe, spezie, marasca e mirtilli. È diffuso soprattutto nelle isole di Brac, Hvar, Korcula e nella penisola di Peljesac. La Bugava è invece un vanto dell’isola di Vis, la sua origine è antichissima ma non è facile trovare informazioni precise sulla storia di questa varietà, conferisce al vino una struttura di medio corpo, una spiccata freschezza e un caratteristico finale ammandorlato. Con il calice in mano, Antonio Lipanovic ci racconta il suo stile di vinificazione. Possiede tre ettari di vigna e compra l’uva da altri agricoltori dell’isola. Usa soltanto lieviti naturali. Ancora non è soddisfatto dei risultati raggiunti e ogni anno esplora nuove possibilità per affinare i vini. La libertà di sperimentare è coadiuvata dalla completa assenza sul isola di disciplinari di produzione e denominazione 1. Anche qui, come in molti paesi dell’est Europa, si è acceso il “dibattito Barrique” che, come in ogni luogo esclusa la Francia, crea sempre accesi contenziosi (da quanti decenni in Italia le fazioni si scontrano e confrontano parlando di questo strumento?). Antonio ha provato la barrique, ma non è entusiasta. Il futuro affinamento dei suoi vini sarà nelle botti grandi. (vedi degustazione) Prima di congedarci e ringraziare per la disponibilità asciutta, il padrone di casa ci ferma e, con l’atteggiamento sicuro di chi sa quello che fa, ci offre un assaggio delle sue grappe aromatizzate con le essenze dell’isola: carrube, fichi, miele, erbe aromatiche e noci. A noi piacciono moltissimo e lui sa di aver fatto colpo con i suoi distillati lasciandoci un ottimo ricordo della sua produzione e ospitalità. Usciti dai meandri delle cantine/bunker, il sole mediterraneo è allo zenit e il calore ci investe. Vis è bellissima. [vedi foto 2, 3, 4, 5, 6] Isola dell’arcipelago dalmata più vicina l’Italia, visibile nelle giornate terse dal massiccio della Maiella, Vis ha sempre avuto un ruolo strategico per il controllo dell’Adriatico. I greci la colonizzarono, portando la vite, nel quinto secolo e la chiamarono Issa. I Romani, arrivati nel 47 d.c., trasformarono il nome in Lissa. Molti altri popoli si succedettero sull’isola fino alla Serenissima, che qui come in tante altre località dalmate ha lasciato importanti testimonianze architettoniche, linguistiche e culturali. Dal 1797, cessati il potere di Venezia, per centocinquanta anni Vis è stata sotto l’influenza Austriaca, Francese, Inglese, ancora Austriaca, Italiana (col nome di Lissa) e infine Iugoslava. Oggi è parte della Repubblica Croata. Da qui il maresciallo Tito e il suo stato maggiore nell’estate del 1949, trovato rifugio in un grotta tra monti dell’isola, hanno dato battaglia per cento giorni ai Tedeschi. Fino al 1991 Vis è stata una base militare della Federazione iugoslava con accesso consentito soltanto ai militari e agli abitanti. Agli inizi degli anni novanta, quando la federazione si è sfaldata a colpi di mortaio, l’isola si è trovata improvvisamente senza le sue basi militari: il volano che regolava gli esigui flussi economici dell’isola s’era fermato. La naturale conversione avrebbe dovuto puntare al turismo, ma per vari motivi la vocazione vacanziera dell’isola ha tardato a consolidarsi. In questo limbo tra la fine dell’era militare e l’organizzazione dell’accoglienza, la droga ha preso il sopravvento. Una generazione di isolani è stata pesantemente colpita, in un momento di smarrimento e mancanza di prospettive. Oggi, a quasi vent’anni dallo smantellamento delle basi militari, gli abitanti dell’isola sono riusciti nell’intento di foraggiare l’economia con il turismo e, avendo gestito con intelligenza la riconversione, hanno fatto di Vis una delle mete più ambite della costa dalmata. Infatti, un po’ per l’impossibilità di accedere all’isola fino al 1991 un po’ per la lungimiranza degli isolani, oggi il paesaggio isolano è praticamente immune dalle speculazioni immobiliari che hanno massacrato le coste Italiane e Greche. Ancora oggi i due paesi principali, l’omonima Vis e Komiza, si presentano con il centro, costruito e ricostruito durante la dominazione veneziana e austro-ungarica, essenzialmente intonso [vedi foto 7, 8, 9, 10]. Sono pochissimi gli edifici moderni sull’isola e nessuno scempio aggredisce il paesaggio. Una bellissima notizia se si pensa che soltanto a poche miglia marine, l’arrembaggio cementizio alla costa abruzzese ha reso le spiagge inospitali, squallide e desolate. La posizione di questa isola ha offerto nei secoli opportunità di pesca straordinarie. Prima dell’era militare, la pesca delle sarde era per Komisa la fonte principale di sostentamento. La leggenda vuole che nel 1553 in una sola notte tre milioni di sardine rimasero prigioniere delle reti dei komisani 2. Un pesca così florida che gli abitanti di Komisa hanno inventato una barca destinata esclusivamente alla pesca delle sarde: la falkusa. “[…] la pesca delle sardelle avveniva nelle acque di Pelagosa. Un colpo di cannone dalla torre Grimani dava il via alle falkuse, una regata, in pratica, una delle più antiche di cui si abbia notizia. La prima testimonianza scritta è del 1593: il 20 giugno di quell’anno c’erano 74 barche in partenza da Komisa, ognuna con cinque uomini a bordo. Venezia aveva spedito una galea e proteggere dai pirati le quindici ore filate di voga di quei 370 uomini. Chi arrivava primo si aggiudicava il tratto di mare più pescoso. Per percorrere le 42 miglia che separano Lissa da Pelagosa andando a vela ci si metteva cinque ore, ma a remi, come detto, le ore triplicavano; si vogava in piedi trasportando i barilotti con tutto il sale necessario a conservare il pesce e la legna indispensabile per i fuochi che illuminavano il mare. Una battuta di pesca durava ventidue giorni e si riuscivano a mettere sotto sale sei tonnellate di sardine. Sopra il coperchio dei barilotti si collocava un pietra da 45 chili e dopo cinque mesi le sardelle erano pronte per essere mangiate” 3. Non tutti sanno che nei secoli la pesca delle sarde ha provocato un vero e proprio disastro ambientale. E a questo punto, forse, vale la pena sfatare una leggenda: ovunque si vada, sulla sponda orientale dell’Adriatico, ci si sente raccontare che non ci sono più boschi per colpa dei veneziani: li avrebbero tagliati per costruire la città e le navi necessarie alla loro flotta. Che Venezia abbia pelato intere montagne (a cominciare dal Cadore) è fuor di dubbio, ma è eccessivo attribuirle tutti i mali, anche in località che non sono mai state sotto il suo dominio, come per esempio il Carso triestino. Il colpevole invece c’è, ed è la pesca del pesce azzurro. Per attirare le sardine, o le acciughe, veniva acceso un fuoco di legna su una specie di gabbia fuoribordo detto lumiera. Il chiarore chiamava il pesce che poi veniva acchiappato. […] Ogni luminaria, per ciascuna notte di pesca, bruciava un metro cubo di legna, cioè 20 metri cubi al mese, per otto mesi, ovvero 160 metri cubi a stagione di pesca. Nel 1880, nel solo circondario marittimo di Spalato (di cui Lissa fa parte), si erano bruciati circa 20 mila metri cubi di legname. Oggi delle cinque fabbriche di sardine in scatola di Vis non ne rimane neanche una. L’ultima ha chiuso da pochi anni. Tuttavia, le sardine rimangono un ingrediente di grande importanze per le specialità dell’isola. A Vis gli amanti della tavola sono i benvenuti, si può scegliere tra molti ristoranti dove passare una serata piacevole assaggiando piatti semplici e ben preparati accompagnati dai vini locali. Senza esaminare la ricca cultura gastronomica dalmata [vedi foto 27, 28, 29], è bene menzionare una tecnica di cottura peculiare: la Peka. Costruita in ferro o in ghisa, la Peka è un piccolo forno che si alimenta comprendolo con la brace. All’interno si stufano innumerevoli combinazioni di carne o pesce con verdure e riso. È curioso che la Peka abbia un omologo tra le montagne abruzzesi: il Coppo. In entrambi i piccoli forni spesso si cuoce l’agnello la cui carne è molto apprezzata da entrambe le parti del mare. Polipo e gallinella sono altre due specialità cotte nella Peka. [vedi foto 11, 12, 13] Le sardine sono protagoniste di molte preparazioni e l’ingrediente principale della focaccia, una pizza ripiena con i piccoli pesci sotto sale, cipolle e pomodori. Il pesce fresco non manca nei ristoranti dell’isola. Grazie alle sua squadra di pescatori e subacquei di fiducia tutte le sere ogni ristorante offre una varietà incredibile di pescato. Il contorno più apprezzato della cucina dalmata è un piatto composto da bietole bollite insieme alle patate e condite con olio a crudo. La “buzzara”, un umido a base di aglio, prezzemolo e pomodoro, è la classica preparazione per crostacei e molluschi, diffuso in tutta la costa Croata, Slovena, e Italiana almeno fino a Venezia. La ricerca dei migliori produttori di vino isolani continua al fianco di Sandra e Marko. Diplomati alla scuola agraria di Zagabria questi due ragazzi quasi trentenni sono oggi consulenti di un nascente progetto italiano sull’isola. Alberto Massucco, imprenditore piemontese, si è innamorato di Vis e ne ha fatta la sua patria d’elezione. Oggi è il titolare di un albergo e un ristorante nella frazione di Kut e non ha rinunciato a un’attività che qui sull’isola impegna quasi tutti gli indigeni: la cura di pochi filari e la produzione di qualche buona bottiglia. In effetti, il signor Massucco, ha fatto di più e la sua scommessa di produttore di Palvac e Bugava oggi conta su una bellissima cantina appena ultimata e alcuni appezzamenti sparsi su vari versanti dell’isola. Per Bibendum in actione (vedi degustazione) il confronto con la viticoltura è solo all’inizio e le scelte stilistiche da dare ai vini vanno ancora messe a fuoco. Il lavoro di Sandra e Marko in vigna e in cantina è sicuramente nella direzione giusta: un agricoltura senza chimica e in cantina la quantità minima di solfiti. I lieviti naturali arriveranno appena i progetti di selezione dei ceppi locali saranno ultimati. L’allevamento della vigna non è ad alberello come i più antichi appezzamenti dell’isola, ma seppure sistemate su filari, le piante di Bugava non seguono criteri di allevamento e di densità. Il progetto futuro di Marko è di sistemare le piante a cordone sui tralci. Sull’uso della barrique il dibattito è aperto. Mi viene da pensare che qui in Croazia il rovere di Slavonia è di casa e sarebbe giusto avesse priorità sulle essenze e sui formati francesi o americani. Vedremo tra qualche anno quanto e come i parametri globalizzati dell’enologia internazionale penetreranno e influenzeranno le scelte di questa piccola produzione isolana. Pochi dubbi hanno invece dalle parti di Svilicic, un produttore storico e molto apprezzato sull’isola, il vino qui si fa come ha insegnato il nonno, poche domande e molta tradizione, l’unica variente sta nel fatto che non si usa più legno: nella cantina di Anita e Petar, sia la Bugava sia il Plavaz sono affinati in grossi tini di acciaio. Girando per le strade dell’isola si vedono moltissimi appezzamenti con vigne (i vigneti rappresentano circa il 40% del terreno agricolo dell’isola). [vedi foto 14 - 23] La maggior parte degli impianti sono ad alberello, filare e alberello su filare. Il problema sanitario della vite è l’oidio, sensibilmente più pericoloso della peronospera, considerata la ventosità dell’isola. La struttura geologica superficiale di Vis è perfettamente divisa in due: una metà a terra rossa e l’altra sabbia. Sulla seconda si trovano ancora piante molto antiche con piede franco. Ai tempi della Jugoslavia, qui si faceva una grande quantità di vino. Le tracce di un enologia capace di soddisfare un ampio mercato è visibile ancora oggi in alcuni grandi appezzamenti, tra cui una pista per l’atterraggio di aerei militari risalente alla seconda guerra mondiale, coltivati a trebbiano. Chi forniva grandi quantità di vino alla terra ferma era la Vinogradar, la cooperativa dei tempi socialisti, oggi privatizzata e in bancarotta. [vedi foto 24, 25, 26] Già all’epoca dell’impero, l’isola era il principale fornitore di vino e di aragoste di Francesco Giuseppe. È presente ancora oggi la struttura dove le aragoste pescate venivano lasciate per essere successivamente caricate dalla nave dell’imperatore che ogni settimana assicurava il tratto marino del lungo viaggio di questi ambiti crostacei fino a Vienna. Nel nostro itinerario enologico sull’isola non siamo riusciti a visitare l’azienda Cobo e la cooperativa di Podspiljie considerati tra i migliori produttori dell’isola, purtroppo erano chiusi quando siamo andati a trovarli, non mancheremo l’appuntamento la prossima volta. Il nostro itinerario a Vis non si esaurisce alla ricerca di produttori di vino e tradizioni agricole e gastronomiche, il mare è davvero invitante e la pietra bianca dei massi che si getta nell’acqua ti ricorda sempre che sei la centro del mediterraneo, allora hai voglia di gettarti in acqua per un altro bagno, ma questa è un’altra storia… Ringrazio per la loro collaborazione Sandra Hrga e Marko Plichta, il mio amico Pjero Bozanic e il signor Alberto Massucco per la sua gentilezza e disponibilità.

1 La classificazione dei vini di qualità in Croazia si divide in tre gruppi: semplice vino da tavola (stolno vino), vino di qualità (kvalitetno vino), vino di classe superiore (vrhunsko vino).
2
3 Marzo Magno Alessandro, Il leone di Lissa. Viaggio in Dalmazia, Il Saggiatore, 2003 p. 172
4 I bidem, p.174

pubblicato sulla rivista Slowfood numero 46

Cena georgiana
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Dicembre 2009. Soliko e Ramazi, i produttori georgiani di vino in anfora del Presidio Slow Food e della rete di Terra Madre, sono venuti a trovarci a Roma. Li abbiamo messi in cucina e ci hanno stupito con le loro proposte gastronomiche, i loro vini e i loro distillati… La cultura gastronomica georgiana è tra le più interessanti e peculiari, guai continuare ad ignorarla.